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Il pubblico si è trasferito su altri pianeti?

Fondazione Apulia Film Commission


Fondazione Apulia Film Commission Presidente: Antonella Gaeta Vicepresidente: Luigi De Luca Consiglieri d’amministrazione: Francesco Asselta, Enrico Ciccarelli, Giovanni Refolo Revisori dei conti: Antonio Carlà, Franco D’Agostino Damiani, Paolo Marra Direttore generale e Responsabile Unico del Procedimento: Silvio Maselli Staff Apulia Film Commission: Paola Albanese, Dina Allegretti, Angelo Amoroso D’Aragona, Alessandra Aprea, Claudia Attimonelli Petraglione, Daniele Basilio, Andrea Carpentieri, Roberto Corciulo, Raffaella Delvecchio, Maria Laurora, Antonella Lopopolo, Massimo Modugno, Nicola Morisco, Mario Muscogiuri, Costantino Paciolla, Virginia Panzera, Antonio Parente, Luca Pellicani, Cristina Piscitelli, Fabrizio Stagnani, Lucia Stifani, Daniela Tonti. Staff D’Autore Direttore artistico: Angelo Ceglie Project manager: Serge D’Oria Assistente project manager: Valeria Corvino Assistente direzione artistica: Toni Cavalluzzi Ufficio stampa: Francesca Limongelli PR, comunicazione e coordinamento editoriale: Mariapaola Spinelli Progetto didattica: Sara Valente D’Autore è il progetto della Fondazione Apulia Film Commission che valorizza le sale cinematografiche di qualità attraverso la creazione di un circuito che coinvolge l’intero territorio regionale. Il progetto si avvale del finanziamento del P.O. Fesr Puglia 2007-13, Asse IV, linea d’intervento 4.3, azione 4.3.1. L’acronimo sta per Programma Operativo Fondi Europei Sviluppo Regionale il cui fine è quello di contribuire alla crescita strutturale delle regioni con l’intento di consolidare la coesione economica e sociale dell’Unione Europea colmando gli squilibri interregionali. Il Programma assume in particolare l’obiettivo specifico, perseguito attraverso l’Asse IV per la valorizzazione delle risorse naturali e culturali per l’attrattività e lo sviluppo. La Puglia è diventata in questi anni una tra le regioni italiane in grado di usare al meglio i fondi strutturali per la cultura, sviluppando le condizioni per la crescita delle industrie culturali e creative. Il lavoro di Apulia Film Commission si colloca all’interno di questa strategia regionale di sviluppo europeo e D’Autore è uno dei progetti più innovativi, unico esempio di un circuito regionale di cinema di qualità in Italia.

Giunto al secondo biennio di attività D’Autore supporta, con un cofinanziamento massimo di 36,000 euro annuali a sala, una programmazione di qualità nei cinema selezionati attraverso una procedura di evidenza pubblica. L’obiettivo del progetto è di diversificare e ampliare la qualità dell’offerta culturale attraverso una gestione innovativa e mirata delle sale cinematografiche, incrementando il flusso dei visitatori con una selezione composta da almeno il 51% di film italiani ed europei. Presentazioni di film in anteprima, incontri con i registi, rassegne cinematografiche in lingua originale, progetti didattici e la realizzazione di una rivista di cultura cinematografica e visiva sono tra le principali attività del Circuito D’Autore.

Editoriale D’Autore Il pubblico si è trasferito su altri pianeti? Enrico Magrelli Il futuro degli spettatori attivi Luigi Abiusi Intorno al Circuito D’Autore Angelo Ceglie Il vizio del cinema Gianni Amelio: Il cinema la stanza dove sono nato Carlo Gentile Nuovi Autori Giorgio Diritti Noi crederemo Gemma Adesso Visioni Massimo Causo, Davide Di Giorgio, Alberto Pezzotta Letture Puglia: territorio del cinema Francesco Maggiore Perso in sala Francesco Monteleone Incompreso Vito Attolini Concettimmagini Blow-up Francesca R. Recchia Luciani Videoalterazioni Una generazione di performers pugliesi Mariapaola Spinelli Prospettiva Mediateca La reversibilità del pubblico hyperseriale Claudia Attimonelli Prospettiva Centro studi Il tramonto della soggettività Francesco Asselta Cineporti in rassegna Morale-Formale. Il rigoroso cinema di Elio Petri, Angela Bianca Saponari Perversioni private Omar Di Monopoli

CREAZIONE DI UN CIRCUITO DI SALE CINEMATOGRAFICHE DI QUALITÀ P.O. FESR 2007 – 2013 ASSE IV LINEA DI INTERVENTO 4.3 AZIONE 4.3.1


EDITORIALE D’Autore

Il pubblico si è trasferito su altri pianeti? Il quesito di questo terzo numero è d’autore e viene da lontano, da una constatazione che ha compiuto più di trent’anni. Nel 1980 Fellini, deluso per l’accoglienza riservata al suo film La città delle donne, fece un giro delle sale di Roma per verificare che “il pubblico si era trasferito su un altro pianeta, non c’era più” come riferì Tullio Kezich (in Federico. Fellini, la vita e i film, Feltrinelli). Nei giorni del Bif&st, dedicato quest’anno al ventennale della scomparsa del regista riminese, abbiamo deciso di lasciarci guidare dal senso di smarrimento che lo prese quando andò per sale deserte. Perché, di certo, s’impone una riflessione sul ruolo della sala cinematografica in questo momento di crisi, di disaffezione del pubblico, di preoccupati gridi di allarme e appelli per il salvataggio delle sale da parte degli esercenti. Riflessione forse tardiva, ma comunque necessaria. Questa rivista che state leggendo è espressione di un Circuito D’Autore creato come presidio del cinema d’autore convinti che andasse difeso e, insieme, divulgato a vantaggio dello spettatore. È stata una strada imboccata in anticipo, quando i venti di crisi che ora flagellano la sala soffiavano, certo, ma non a tutti questi nodi, credendo che una strada possibile fosse quella di specializzare al massimo un gruppo di sale, diversificandone la proposta e rendendole uniche e, pertanto, irrinunciabili per uno spettatore che diventava ‘d’autore’ e, di conseguenza, sempre più consapevole, sempre più legato all’esperienza cinema.

Perché, come suggerisce nella risposta al quesito, Enrico Magrelli, ora è tempo di riconquistare elettori - spettatori alla sala e trovare il modo giusto di farlo. Cercando soluzioni. Come fanno alcuni cinema che riscoprono una caratteristica originaria della sala - di quando il Cinema nacque - ovvero la poliedricità. Dalle rassegne in lingua originale a cicli per neomamme, fino alla visione di opere e concerti in diretta. Un’altra soluzione, la più auspicabile, sarebbe cercare di leggere fino in fondo il proprio tempo e i vari pianeti abitati dagli spettatori, altrove dalla sala. Perché il cinema ormai non si vede più solo al cinema e questo è sotto gli occhi di tutti, si vede su tv, pc, smartphone, dvd, piattaforme web. Ed è per questo che appaiono anacronistici tanto il monopolio della distribuzione dall’alto, quanto il sistema di finestre, quel tempo fisso che divide l’uscita in sala da home video, tv a pagamento e tv generalista. Tempi lunghi che sono come porte chiuse in faccia ai tanti pubblici che compongono l’audience contemporanea. Ma la sala in tutto questo può ancora giocare un ruolo fondamentale, soprattutto in un momento di digitalizzazione, perché ha quello che gli altri supporti non hanno. “Il cinema è luce” dice Fellini dai cartelloni del Bif&st in giro per Bari. E ai gestori della luce passa la parola, perché, è altamente sconsigliabile accecarsi davanti a tutto questo divenire (come questi tempi, gravidi di rapido divenire, ci stanno insegnando).


Il pubblico si è trasferito su altri pianeti?

Enrico Magrelli Enrico Magrelli

Pensare una città, un borgo, un piccolo paese o un mondo senza più sale cinematografiche per uno spettatore della mia generazione è impossibile. Sarebbe come leggere un racconto, sfogliare un fumetto, osservare una foto che descriva e fissi sulla pagina, in una tavola, in un’istantanea un universo annichilito da qualche catastrofe futuribile. Macerie, palazzi smozzicati, asfalto divelto, vetrine esplose, oggetti polverizzati e ombre di umani che incedono con il passo dei sonnambuli. La sala appartiene alla nostra idea di metropoli (grande, piccola o minuscola), al modello consolidato del nostro paesaggio e alla nostra immaginazione sociale. Significa lavoro, investimenti, cultura, occupazione, fantasia, tempo libero. E molto altro. Ma le cose cambiano, si trasformano, evolvono o involvono, si ramificano, implodono. Ignorare questi processi o arroccarsi, come negli scacchi, in attesa del sacrificio di un alfiere o della stessa regina, porta a uno stallo o alla eventuale disfatta. La sala per molti decenni è stato anche esclusivo sinonimo della parola “cinema”. E’ stata il luogo privilegiato del consumo cinematografico, e senza scomodare concetti socio-psicanalitici (buio, visione collettiva, condivisione emotiva…), è stata un’esperienza eccezionale che ha caratterizzato, influenzato, accompagnato il Novecento. Il binomio cinema e sala sarà nel futuro materia di studio per chi si occuperà delle forme e degli spazi dello spettacolo e del loro consumo. In questi anni le sale e il cinema affrontano, parallelamente, momenti di crisi acutissima e sprazzi di una gioiosa e scomposta vitalità. Per tre weekend si piange sulle disgrazie degli incassi e poi, improvvisamente, arrivano due o tre film che riportano il pubblico davanti allo schermo della sala. I flussi degli spettatori sono indecifrabili almeno quanto quelli degli elettori in questa Italia nervosa, impaziente, preoccupata, volubile, sfiduciata, desiderosa, in parte, di nuovi segnali. Impegnandosi molto, facendo una severa e spietata autocritica, non elargendosi blande e inutili assoluzioni, la filiera cinema deve conquistare e conservare il suo elettorato, deve riconquistare gli astensionisti, chi vota scheda bianca e si è allontanato dal partito della sala, soprattutto deve cercare e formare i giovani elettori-spettatori. Quei nativi digitali misteriosi e incomprensibili per le tradizionali teorie della comunicazione. Gli spettatori si sono allontanati dalla sala da molto tempo. Alcuni sono già espatriati altrove. In pianeti inediti, fino a venti, dieci o cinque anni fa. Pianeti dove la nozione di tempo libero ha altre articolazioni, ritmi di consumo e di coinvolgimento. E altre galassie verranno scoperte a breve. L’immaginazione sociale è diventata più veloce, reticolare, espansa, complessa. Il vero problema è che non tutti gli esuli si sono arruolati nelle ciurme dei pirati. Il vero problema è che la definizione di cinema non si rinnova. Quella della tv, solo per fare un esempio, si aggiorna costantemente. Parole come second screen o social tv non sono vocaboli di altri pianeti nascosti nell’universo.


Il futuro degli spettatori attivi

È dalla fine degli anni Ottanta, cioè da quando nacque il palinsesto di “Fuori Orario” che le modalità

di fruizione del cinema cosiddetto di qualità, si sono svolte a mano a mano secondo prospettive diverse rispetto alla strada maestra tracciata dalla distribuzione, il cui sbocco esclusivo erano le sale prima e poi l’home video. Ed è stato questo il segno di un approvigionamento di visioni alternativo a quello consumistico imposto dal nostro mercato, benché avvenisse proprio mediante uno strumento (la televisione) che era apoteosi dello spettacolo-merce, e che in quelle notti ammutolite dalla pioggia sulle persiane, si trasformava (e si trasforma ancora) in uno squarcio di spazio e di tempo in cui si sedimentavano i piani-sequenza materici di Satantango. Poi, con il contemporaneo diffondersi dei dvd e di internet, il crocevia dell’home video è divenuto l’etere, fino a constatare ora il fenomeno del dvx, pratica esecrabile, che genera abomini, quelli che allora sono pseudofilm, perchè il cosiddetto ripping da cui scaturisce il dvx, cioè la riduzione della qualità dell’immagine in modo che pesi meno in termini di megabyte, pregiudica l’integrità del film, ne intacca la quantità e qualità di luce, di colore, mentre si sa che il cinema è proprio essenzialmente luce, quanto più piena. Eppure questo diffondersi di torrent ha avuto l’effetto positivo di uno sviluppo di tutta una comunità che non solo si nutre di questo cinema, ma ne traduce in italiano i dialoghi, mettendo i

Luigi Abiusi

sottotitoli a disposizione su forum o database di accesso pubblico. Sicché una delle prassi consolidate ora è mettersi davanti a un computer dotato di vlc che implementa un file dvx con i sottotitoli in un semplice formato srt (appunti di blocco note); oppure utilizzare uno dei lettori che svolgono la stessa funzione ma direttamente su un televisore. Il risultato, benché si riesca a vedere il film con i dialoghi perfettamente sincronizzati, è pessimo, indecente: l’immagine non ha profondità; è vista attraverso una specie di retina, per non parlare della squadratura dei pixel frutto del processo di schematizzazione (e alleggerimento) della sublime complessità dell’immagine. Un film di buona qualità che occupava su dvd, mettiamo, 8 gigabyte viene di solito ridotto a 1,21 gigawatt (nel migliore dei casi), lavorando soprattutto sui neri dell’immagine che vengono drenati e ridotti a dei buchi fuligginosi; perciò ci si scordi di notti astrali, del luccichio di stelle, le pallide: fuori è solo grumo catramoso.

Ma, in un periodo di delicata (e stimolante) transizione com’è quello attuale, restano grandi margini per ipotesi di congeniale fruibilità di questi film; non solo il reperimento, a un basso costo, dei dvd (a cui poi aggiungere i sottotitoli di cui dicevo) provenienti dall’estero, ma soprattutto l’uso degli strumenti a disposizione delle sale cinematografiche (oramai attrezzate, anche loro malgrado, per proiettare in digitale) per visioni ineffabili, in altissima definizione, anche solo usando, ad esempio, i blu-ray. Il che potrebbe essere la risposta ideale (proprio sul piano dei nuovi formati) ai presunti danni provocati dalla pirateria (innocua nella misura in cui spaccia abomini filmici) e alla ristrettezza imbarazzante dell’offerta di cinema d’arte da parte delle nostre distribuzioni, offrendo film sottotitolati a una schiera (non esigua) di spettatori “attivi” (che si attivano, fanno ricerca) per i quali non c’è crisi che tenga e pagherebbero anche biglietti maggiorati e con una certa costanza pur di godersi, mettiamo, un Holy Motors in sala, al contrario di quelli occasionali, in cerca dello spettacolo da consumare al pari dei popcorn, che potrebbero tranquillamente rinunciare (come effettivamente fanno) all’esperienza esistenziale dell’immagine per fare economia, l’economia una e trina.


Intorno al Circuito D’Autore D’Autore è un progetto complesso, ambizioso, strutturato e, al tempo stesso, semplice, lineare, libero. È sensibilità che coincidono, improvvisazione musicale,caparbia determinazione, un punto preciso all’orizzonte da raggiungere e la possibilità di perdersi per strada. È ribaltamento di ruoli e prospettive, è la sala cinematografica che finalmente sceglie il suo pubblico, lo seleziona per abitudini, educazione, scelte culturali. E lo sorprende: provocazioni indie laddove magari ci si aspetta “l’Autore Europeo”, eccentricità asiatiche su schermi avvezzi al “Film Italiano”, Bertolucci “Conformista” nella stessa sala che qualche settimana prima ha ospitato “Io e te”, Polanski e Allen che raccontano se stessi prima che i loro vecchi film trovino un loro nuovo pubblico, una monumentale ed eccitante story of film negli occhi di decine di studenti universitari, il tutto esaurito in un agosto particolarmente torrido per (ri)vedere Tavernier o Lynch, Monsieur Lazhar a Terlizzi e Audiard a Crispiano, Steve Mc Queen prima della consacrazione e il cinema inglese che gli altri non fanno vedere, decine di titoli in esclusiva regionale o per tutto il sud Italia, una rivista di cinema che finisce in un museo d’arte contemporanea. D’Autore non è un evento. Non è un fuoco di paglia che brucia senza lasciare traccia. È il lavoro metodico e quotidiano di un gruppo creativo che allestisce il cinema che si vedrà. È un’offerta diversificata e fluida che non prevede graduatorie di merito, ma spettatori di merito.

Angelo Ceglie Lo spettatore, esattamente. Il principale referente di tutta questa operazione spericolata, di tutto questo correre sulle uova, di questo alternarsi di gioie e delusioni,errori e intuizioni fortunate. Ignorando il dito costantemente puntato dei santoni e dei rappresentanti ancorati a logiche ormai superate che hanno fatto del lamento circostanziato una professione e una forma identitaria. D’Autore fa e D’Autore sbaglia. D’Autore non è il migliore dei mondi possibili. Ma il progetto è cresciuto in questi pochi anni insieme al suo pubblico attento e curioso, insieme agli esercenti che ci hanno creduto fin dall’inizio e non con quelli che cercano di entrarci per opportunismo, senza crederci veramente, affermandosi come una realtà riconosciuta e riconoscibile. Grazie anche a delle scelte di comunicazione innovative e non banali (la rivista, su tutte). La sfida è ora quella di continuare a soddisfare in maniera adeguata le aspettative create. Di rilanciare la posta, di alzare l’asticella. Di andare fuori formato:”troppo grande, troppo piccolo, troppo strano...” è il mantra al quale D’Autore deve continuare a sottrarsi. Perché lo spettatore cinematografico non è un bambino da bacchettare o indottrinare, ma una sensibilità vigile e critica i cui appetiti culturali un progetto come questo deve assolutamente continuare a sollecitare.


Il vizio del cinema

Carlo Gentile

Gianni Amelio: Il cinema la stanza dove sono nato

Nonostante sia alle prese con la messa a punto del suo “Intrepido ”, Gianni Amelio risponde alle nostre domande in viaggio tra Roma e Milano, sul treno, mentre scorrono paesaggi e nuvole e squarci di cielo azzurro intenso che gli riportano alla mente il suo inizio al “vizio del cinema” (come il titolo di questa rubrica e del suo omonimo libro del 2004 edito da Einaudi). Per me il cinema è la stanza dove sono nato: il Politeama Italia di Catanzaro, dove mi portava mia nonna. Avevo quattro anni e ricordo che per me era la casa dove abitava una signora dai capelli lunghi e dal volto bellissimo che si chiamava Gilda. Avevo quattro anni. La vedevo molto grande, così vicina, sul telone, per me un enorme lenzuolo. Tanto è vero che qualche tempo dopo chiesi a mia nonna, mentre sullo schermo c’erano altre persone (un altro film): ma Gilda quando torna? Il cinema come casa è un concetto che mi è rimasto anche ora dopo più di sessant’anni. Per questo mi duole molto vedere chiudere tante sale cinematografiche, quelle sotto casa. Quelle che avevamo a portata di mano, che quando avevi bisogno di andare in un’altra stanza o perché avevi litigato con qualcuno scendevi ed entravi un altro mondo, un mondo fantastico che ti proteggeva. Da bambino io abitavo in una casa modesta, per cui il Politeama per me era un’altra casa senza pareti, soffitti, tutto si apriva al cielo, agli spazi, alla voglia di andare via con la fantasia. Come non diventare un vizioso del cinema con questa magia enorme? Anzi, devo dire che sono diventato dapprima un vizioso della sala cinematografica e poi, man mano, dei film che cominciavo a comprendere nei dialoghi, nelle storie e non solo nelle immagini. E dopo con le videocassette e ora con i dvd? Ancora oggi non mi abituo all’idea del DVD, per cui posso rivedere un film in dvd ma non vederlo per la prima volta. Ho bisogno dell’atmosfera. Come un cattolico che deve andare in chiesa per ascoltare e vivere la messa. Non è, evidente, la stessa cosa che vederla su RAI 1. Certo io credo all’uso del dvd, che ho molto utilizzato per scegliere i film quando ho diretto il festival di Torino, ma “i cinemi”, come dico io, sono quelli che prediligo e dove si officia questa messa laica che non ha eguali. Internet e i video on demand, dove porteranno il cinema? È un progresso giusto e inarrestabile, ma non so se faccia bene. Il cinema è anche godere il rito, di essere tutti insieme e di ridere sulla stessa battuta o trepidare per una

storia commovente o triste. Un’arte, la più giovane, nata per condividere le emozioni. Certo la parte positiva del progresso tecnologico c’è. Comprare un dvd è come leggere un libro a casa. Prima i film li “perdevi” una volta uscito dalla sala. Restavano solo nella tua memoria. Adesso te li porti a casa a portata di visione. Come prima si andava in libreria e si comprava un testo di Leopardi o Dante. Grazie a questi supporti, molti giovani, parlo anche di trentenni, che non hanno potuto vedere tanti capolavori della storia del cinema adesso possono farlo tranquillamente senza aspettare delle caotiche programmazioni di film in televisione. Insomma vedere e rivedere i film anche in rete aiuta a conoscere ma l’emozione è diversa. Sono certo che gli spettatori di “domani” avranno delle emozioni differenti da quelli della mia e delle attuali generazioni. Il vizio del cinema si modificherà, magari, in quello dell’audiovisivo. Dove il film tout court si miscelerà a spezzoni di videoclip o di immagini dai videofonini e così via. Insomma il mito si è già un po’ infranto. Non credo, però, che bisogna piangere sulle cose che muoiono ma sperare nelle cose che nascono. La magia delle sale resterà ma anche i film a casa nostra che rendono visibili “chefs-d’ouvre” che avremmo invece perduto.


Nuovi autori: Giorgio Diritti

Gemma Adesso

Noi crederemo

Il vento fa il suo giro (2005), L’uomo che verrà (2009), Un giorno devi andare (2012, presentato quest’anno al Sundance Film Festival e in uscita in Italia dal prossimo 28 marzo): leggere di seguito i titoli dei lungometraggi di Giorgio Diritti può essere utile per capire che dietro la purezza formale delle immagini e la scelta coraggiosa di utilizzare lingue essenziali c’è il proposito audace di una narrazione in divenire. Il racconto di una storia comune volta al futuro. I film di Diritti affondano tutti nello spazio esatto e imprescindibile dell’attesa attraverso un lavoro meticoloso sulla sostanza delle parole e sull’ampiezza delle inquadrature. Se da un lato l’attesa, intravista anche solo nei titoli, è una maniera di raccontare attraverso l’uso di lingue desuete o mediate (l’occitano, il dialetto, il francese sottotitolato); dall’altro l’ampiezza ha a che fare con il registro delle immagini, la scelta delle inquadrature e il controllo dello spazio attraverso uno sguardo in prospettiva proiettato così lontano da lasciare intravedere l’azione costante del fuoricampo. L’attesa è lo spazio lasciato vuoto da un invisibile pressante che agisce nelle zone confinate della Storia così come l’ampiezza è il mondo che si offre per la prima volta allo sguardo, un Eden disabitato dopo la condanna dell’uomo a una dolorosa fisicità. Ci sono dei volti incredibili che bastano da soli a spiegare tutto un intricato rapporto di visioni interiori: quello della piccola Martina in L’uomo che verrà ha la stessa potenza di quello di Ana, la bambina protagonista de Lo spirito dell’alveare (1973) di Victor Erice. La correlazione tra questi due film non è casuale, in entrambi, il racconto si sottrae alla parola, precipita e si alimenta solo delle visioni mute che reinventano un mondo altrimenti assurdo. I boschi, i pozzi, le stradine di un paesino deserto di montagna, le stanze di una casa svuotata diventano gli scenari ideali nei quali poter rivivere storie di mostri e liberatori. Giocare a nascondino nelle diramazioni lese della storia (la guerra civile spagnola; la strage di Marzabotto) consente di prendersi cura dell’Altro, nascondendolo alla vista di tutti quelli che, a conta finita, non si possono più salvare. La sostanza delle immagini dei film di Diritti si alimenta dei resti di questo sistema dell’invisibile fatto della monotonia del pianto, di preghiere bisbigliate, di sibili assordanti e inaspettati canti. Il francese ricercato che si mescola all’occitano per parlare del lavoro degli antenati (Il vento fa il suo giro) e il tedesco che decompone la quotidiana mestizia dei riti popolari (L’uomo che verrà) sono il segno di una perturbante intrusione che scuote le singole storie e la Storia generale regolata dal monito “e ogni cosa prima o poi ritorna”.

Se tutto torna, niente resta identico: l’assenza del simile nel quale potersi riconoscere disorienta e induce a ridimensionare i propositi di partenza. Gli sguardi diffidenti sono radicati in un trapassato mitico che detta le regole della convivenza in cui lo stato sociale non è connaturato all’essenza dell’uomo, ma solo all’isolamento violento e selvaggio proprio dello stato di natura. Al massimo, riunirsi equivale a una scelta di sopravvivenza che vale sia per i residenti dislocati di Chersogno sia per i partigiani liberatori e che serve a individuare il nemico comune come metodo di sicura coesione. Chi si sottrae al sistema del giudizio radicato nell’abitudine e si salva dalla caccia ritualizzata nel nascondino generalmente riparte alla ricerca di altri spazi, le violente delusioni che segnano la storia non sono ancora una ragione sufficiente per smettere di credere nelle potenzialità della reinvenzione. Il canto apre a nuove possibilità e il vento torna a girare.


Visioni. I film nelle sale del Circuito

Davide Di Giorgio

La madre In origine Mama era un corto di soli tre minuti, realizzato dal filmmaker argentino Andy Muschietti, con due bambine in fuga da una madre che nel finale si rivelava essere una creatura mostruosa. Era il 2008 e l’idea, semplice e d’impatto, ha poi trovato un inaspettato estimatore in Guillermo Del Toro, che deve essere rimasto affascinato dal tema dei legami parentali e della corruzione dell’innocenza,

da lui già esplorati ne La spina del diavolo e Il labirinto del fauno. Così, il regista messicano ha “sponsorizzato” la promozione di Muschietti al lungometraggio, producendo questo ampliamento di quel brevissimo esperimento filmico. In mezzo c’è naturalmente una dimensione hollywoodiana, con ampio dispendio di effetti digitali per replicare le fattezze della terribile madre, a metà strada fra le figure sgraziate e un po’ caricaturali del Surrealismo Pop e gli Onryō, ovvero gli spiriti mossi dal rancore del folklore giapponese. Già, perché il primo elemento caratteristico de La madre è la sua natura ibrida, che sta fra le gesta assassine della Kayako di Ju-On/The Grudge, il racconto americano in stile “Southern Gothic” e l’horror spagnolo contemporaneo: quello, per capirsi, che riconduce sempre la lotta uomo/mostro nell’alveo di traumi intimi, iscritti nel vissuto e nel senso di colpa dei protagonisti. Qui il film gioca la sua carta migliore, quando contrappone allo spirito della Madre la trentenne Annabel, che respinge invece ogni istinto materno, inseguendo un ideale di vita da perenne adolescente. Il fatto che a interpretarla ci sia l’ottima Jessica Chastain (con inedita chioma corvina) conferisce al personaggio una natura pure ibrida, ovvero spesso forte e protettiva, ma nel complesso trattenuta da una endemica fragilità: due stati d’animo che l’attrice padroneggia con la consueta grazia, regalandoci un personaggio sfaccettato, ben oltre le aspettative della sceneggiatura. Non basta a farne un buon film, ma è un bel punto di forza.

La madre di Andy Muschietti. Con Jessica Chastain, Nikolaj Coster-Waldau, Megan Charpentier, Isabelle Nélisse, Javier Botet. Horror, 100’ Spagna-USA 2013. Sinossi: Le sorelle Victoria e Lily sono sparite dal loro quartiere da cinque anni senza lasciare traccia. Da allora lo zio Lucas e Annabel la sua fidanzata non hanno smesso di cercarle. Ma inaspettatamente le bambine vengono ritrovate vive in una baita fatiscente, e gli zii le accolgono nella loro casa. Annabel cerca di far riprendere alle piccole una vita normale, ma allo stesso tempo inizia a percepire una presenza malvagia nella loro casa, in particolare delle strane voci, di sera.


Visioni. I film nelle sale del Circuito

Massimo Causo

Su Re Smaterializzare la cristologia popolare dalla forma del “tableau vivant” o da quella della “sacra rappresentazione” non è operazione semplice. Quand’anche si parta dalla destituzione di qualsiasi memoria cinematografica di troppi kolossal epico-religiosi, il vissuto da “Passio Christi” resta sempre lì a vestire da documento antropologico il corpo nudo del realismo offerto da volti, sfondi, figure. La storia del cinema è lì a raccontarci meraviglie e rischi dell’infinito remake dei Vangeli succedutosi dai Lumière a Mel Gibson, passando per Nicholas Ray, Rossellini, Pasolini, De Oliveira, Zeffirelli, Scorsese... Ora c’è Su Re, opera seconda del sardo Giovanni Columbu, che si fa carico del testo sacro discernendo l’iconografia dal realismo e trovando il modo per dissipare il velo pittorico senza dismettere l’antico potere iconografico della cristologia. Si tratta di riequilibrare le attese di un confronto laico con la sacralità del testo, affrontando le molteplici prospettive estetiche della via crucis. La strada scelta da Columbu in Su Re è quella di un cinema in qualche modo “terzo”, vicino alle pratiche di astrazione del realismo nell’estasi di un’umanità fuori dalla Storia (autori come Carlos Reygadas e Lav Diaz) e dunque trovato nella prassi di un cinema che filma il tempo delle figure, piuttosto che le figure nel loro tempo, la stasi di un’azione che disincarna la verità nella posa etica ed estetica di personaggi chiamati a rappresentare se stessi. Sicché la Passio Christi messa in scena da Columbu diviene un lungo fermo immagine sulla veglia ai piedi della croce, intervallata da un flusso di flashback che ricostruiscono le poste della Passione. I volti sono quelli di un popolo sardo antico, stretto in scarne battute e costumi pastorali, scolpito nello scenario aspro di una natura quasi astratta. La controbattuta al punto di vista è garantita dal grande fotografo Uliano Lucas, chiamato da Columbu ad agire sul set in piena autonomia con una seconda camera. Il dramma è pieno e risuona di una verità plastica, prima ancora che autentica: un po’ come in Cesare deve morire, dei Taviani...

Su Re di Giovanni Columbu. Con Pietrina Menneas, Fiorenzo Matu, Paolo Pillonca, Antonio Forma. Drammatico 87’ Italia 2012. Sinossi: Trasportato in Sardegna e narrato in dialetto sardo il racconto de La Passione di Gesù dall’ultima cena alla crocifissione.


Visioni. I film nelle sale del Circuito Gli Amanti passeggeri di Pedro Almodovar. Con Penelope Cruz, Antonio Banderas, Cecilia Roth, Paz Vega, Lola Dueñas, Hugo Silva, Miguel Ángel Silvestre, Blanca Suárez. Commedia, 90’ Spagna 2013. Sinossi: A bordo di un aereo che dalla Spagna porta a Città del Messico, un gruppo molto variegato di persone si ritrova ad affrontare una situazione imprevista di pericolo. Le loro reazioni di fronte alla possibilità degli ultimi minuti di vita sono le più disparate e danno origine a variopinte confessioni che diventano il modo migliore per scacciare l’idea della morte.

Visioni. I film nelle sale del Circuito

Alberto Pezzotta

La scelta di Barbara È coraggioso distribuire da noi l’opera n. 6 (tv-movies esclusi) di un regista stimato in patria, Christian Petzold, ma sconosciuto da noi, e forte in questo caso solo di un Orso d’Argento a Berlino. Leggendo le frasi di lancio, si scopre il selling point: “Più vero di Le vite degli altri... più appassionante”. Peccato che tali strategie di accalappiare pubblico siano fuorvianti, e non rendano ragione né al film di Petzold né al suo predecessore. Entrambi si svolgono nella DDR degli anni 80, in entrambi i cittadini sono sorvegliati dalla temibile Stasi, in entrambi si respira paranoia e voglia di fuga: ma non basta il tema a stabilire paragoni e graduatorie di maggiore o minor realismo. Va detto, piuttosto, che il film di Petzold adotta strategie da cinema d’autore molto diverse. La sceneggiatura spiega il meno possibile. Non sappiamo perché Barbara voglia andarsene; intende solo scappare dal provincialismo soffocante del suo paese? Non ci viene spiegato che cosa le faccia venire dei dubbi: il fidanzato che le prospetta una vita di signora occidentale, costretta a non lavorare? E ignoriamo in quale misura il medico che corteggia Barbara sia una spia o sia davvero innamorato di lei. Per gran parte del film vediamo Barbara, enigmatica, che va in giro furtiva in paesaggi spazzati dal vento, impenetrabile sia a una realtà che detesta sia al cuore dello spettatore. È un metodo di racconto come un altro, né meglio né peggio rispetto all’identificazione problematica e sofferta che propone il film di von Donnersmarck, che adottava comunque un punto di vista opposto: quello della spia. Un metodo non esclude l’altro. I risultati da valutare sono altri: la capacità di descrivere un passato da cui ci separano così pochi anni, e che appare così mostruosamente remoto. I tedeschi riescono a raccontarlo, e il cinema è anzi un mezzo privilegiato per fare i conti con esso. E qui c’è una lezione per il cinema italiano contemporaneo, così spesso spaventato dalla Storia. La scelta di Barbara di Christian Petzold. Con Nina Hoss, Ronald Zehrfeld, Mark Waschke, Jasna Fritzi Bauer. Drammatico, 100’ Germania 2012. Sinossi: Germania dell’Est. Barbara è una dottoressa trasferita per motivi disciplinari in un ospedale in una piccola città di provincia. Ma a Barbara non importa nulla di ciò che la circonda, né del suo lavoro né della sua vita attuale. L’incontro con Andre però, anche lui medico trasferito per motivi disciplinari, porterà scompiglio nell’esistenza della donna facendole perdere il controllo di se stessa, dell’amore e della sua vita.


Letture

Francesco Maggiore

Puglia: territorio del cinema Le sale cinematografiche rappresentano una fondamentale offerta culturale per il territorio; avere consapevolezza di tale patrimonio è indispensabile per avviare un processo di valorizzazione e di sviluppo. Da questi presupposti si muove l’esigenza di un’indagine sulle singole sale della Puglia con l’obiettivo di costituire un bagaglio di informazioni utili per la comprensione dello scenario attuale e soprattutto per la programmazione dello scenario futuro. La ricerca, intitolata “Territori del Cinema: Stanze, Luoghi, Paesaggi. Un Sistema per la Puglia. Letture e Interpretazioni” e di prossima uscita, è promossa dall’Assessorato al Mediterraneo della Regione Puglia in collaborazione con il Politecnico di Bari. Si divide in quattro parti: la prima riguarda il “luogo” cinema analizzato nei suoi aspetti storici, tipologici, sociali e culturali; la seconda è dedicata al censimento degli esercizi cinematografici pugliesi (260 tra attivi e inattivi) eseguito attraverso la redazione di schede di catalogazione che contengono, per ciascun cinema, descrizioni, rilievi fotografici, disegni di progetto, immagini d’epoca e fotografiche d’autore; la terza fase è costituita da riflessioni e valutazioni su aspetti urbanistici, economici e legislativi; la quarta si avvale di testimonianze autorevoli a firma di personalità che a vario titolo afferiscono al mondo del cinema tra cui: Dario Fo, Enrico Ghezzi, Roberto Silvestri, Giuliano Montaldo e Sean Hepburn-Ferrer. L’attività di analisi permette di estrapolare le dinamiche insediative delle strutture cinematografiche ponendo le basi per un progetto di pianificazione in grado di rispondere esaurientemente alle esigenze funzionali future. Questo lavoro, nato nell’ambito delle attività del Nucleo Tecnico regionale di Valutazione per l’esercizio cinematografico, è un supporto tecnico e culturale indispensabile sia per la tutela e il recupero del patrimonio esistente sia per definire criteri e parametri utili alla programmazione dell’esercizio cinematografico in Puglia. Territori del Cinema: Stanze, Luoghi, Paesaggi. Un Sistema per la Puglia. Letture e Interpretazioni Editore Gangemi, Roma Formato 25x33cm / oltre 800 p. - ill. a colori Coordinamento scientifico e culturale di Francesco Moschini A cura di Valentina Leva Francesco Maggiore Illustrazioni di Vincenzo D’Alba Illustrazione di Vincenzo D’Alba


Perso in sala Le sale del Circuito: Lo Splendor-Bari Giuseppe Fraccalvieri, direttore del cinema “Splendor”, nacque 40 anni fa dall’ultimo spermatozoo bolscevico del prof. Fraccalvieri, maestro di italianolatinogrecostoriageografia al ginnasio ‘O. Flacco’ di Bari e considerato ‘olimpico’ dai liceali per le sue indimenticabili rassegne all’Esedra. Il prof. Fraccalvieri declinandosi alla vecchiaia, ha nominato tre eredi. Due sono i figli naturali, uno è adottivo (Angelo Ceglie). Tutti e tre hanno preso da lui il rarissimo ‘gene dell’esercente di qualità’. Giuseppe è ingegnere elettrico, ma si illumina d’immenso facendo il dirigente dell’ ARCI regionale, lo storico succo di prugna culturale che favorisce la nostra regolarità intestinale. Suo fratello minore tutti lo conoscono di vista, ma pochi sanno come si chiama. Angelo Ceglie è stato allevato a film, focaccia e astinenza erotica. Il denutrito super-allievo ha sublimato la passione del maestro putativo inventando ‘D’Autore’, il primo Welfare per i cinema trovatelli di Puglia. Lo Splendor appartiene alla Parrocchia “Santissimo Sacramento” di Carrassi. Fu fondato da don Fiore nel 1959, con il prestito di un turco. Oggi, chi deve lucrare la sua salvezza è don Giuseppe Sicolo (64) da Bitonto. Luca Anaclerio (35) è dal 2009 l’unico dipendente fisso, cattolico e multimediale. Ha pochissime mansioni: portiere, cassiere, bigliettaio, centralinista, sorvegliante, assistente sociale e proiezionista come suo nonno, Giuseppe Perrone. Luca fa gli sconti a tutte le associazioni

Francesco Monteleone

progressiste, offre gratuitamente 300 copie di “Vivilcinema” senza chiedere niente in cambio, sopporta chiunque, perfino Giuseppe Pollonio, escluso un portatore insano di frottole (con il nome da brigatista) che per mesi gli ha parlato di sceneggiature dalle 18 alle 23, interminabilmente. Luca afferma che i poveri pagano sempre. I benestanti sono scrocconi. Due ricchi di famiglia gli hanno chiesto di entrare con gli scontrini del supermercato, un avvocato inciampato nel raggiro ci ha provato dicendogli “Ma perché si fa il biglietto?” Luca è meglio del Censis, dal botteghino fa le statistiche a sguardo. Lo Splendor è frequentato da 4 stranieri (2 sono certamente indiani), Dario Ginefra (anche da deputato), Angelo Amoroso d’Aragona (da sposato e separato), Gianrico Carofiglio (che s’insogna da imputato), Simeone Di Cagno Abbrescia (l’ultimo segato), addirittura Nichi Vendola. Invece Il sindaco di Bari non è mai entrato. Lo Splendor è miracoloso. Qualsiasi film fa lievitare i biglietti, compresi i cineforum universitari e quelli del circolo culturale Pierrot le fou. Il massimo incasso è de “Il concerto”. Il peggiore è meglio non dirlo. Il film che ha raccolto il maggior numero di insulti ad alta voce è “L’ultimo crodino” di Umberto Spinazzola, con Enzo Jacchetti. “Viva la libertà” di Roberto Andò ha ultimamente stabilito l’eccezionale primato di due sale piene di seguito e vanta la domanda più intelligente da parte del pubblico: “Scusi, Valeria Bruni Tedeschi è la sorella di Valeria Bruni Tedeschi?”


Incompreso

Vito Attolini

Gli “errori” di valutazione delle giurie dei Festival cinematografici costituiscono un capitolo a parte nel generale fenomeno - fisiologico: habent sua fata libelli! – delle incomprensioni di cui si occupa questa rubrica, e i verdetti che ne risultano sono destinati non di rado ad essere ribaltati. Riconsiderando però i premi di Venezia, Cannes, Berlino e via festivaleggiando, notiamo che il rapporto fra film compresi e film incompresi è positivo a favore dei primi, nonostante la pratica da lungo tempo invalsa di nominare i componenti delle giurie non tanto in base alla competenza specifica quanto all’ “immagine”. Vi si trovano assemblati personaggi eterogenei e non di rado incompatibili fra loro: registi che, nel giudicare i film altrui, tireranno l’acqua al proprio mulino (estetico), scrittori di successo non del tutto convinti, anche se lusingati, del compito loro affidato, giovani attrici o attori, improvvisamente unti delle Muse anche se verosimilmente sprovvisti di strumenti di analisi critica, che vedono nel prestigioso incarico un’insperata promozione culturale. Diverso il caso delle incomprensioni premeditate, frutto di calcoli che hanno poco da spartire con una valutazione “oggettiva”, perché mosse da ragioni non del tutto commendevoli. Frugando nel passato remoto, si ricorda l’ostracismo democristiano decretato all’opera di Visconti, che perciò fu escluso dal Leone d’oro due volte: nel 1954, quando il pur pregevole Giulietta e Romeo di Castellani fu preferito a Senso, e poi nel 1960 quando un discreto film di André Cayatte (Passaggio del Reno) lo soffiò a Rocco e i suoi fratelli (che si dovette accontentare del premio speciale della giuria). Incidenti di percorso, si dirà: in una prospettiva più ampia infatti questi abbagli, veri o presunti, sono compensati da altri Leoni d’oro che hanno premiato quanto di nuovo si stava muovendo nel panorama internazionale cinematografico. Scorretene la lista e ve ne accorgerete, fatta la tara di qualche (in)spiegabile gesto di generosità: come il Leone regalato a Mira Nair per il bollywoodiano Monsoon Wedding 2001, a Darren Aronofsky per il gonfio The wrestler 2008, a Sofia Coppola per il trito Somewhere 2010: deviazioni da una strada lungo la quale si incontrano Leoni d’oro degni di rispetto, come, fra i memorabili, quello per Rashomon di Akira Kurosawa 1951, per Aparajito di Satijait Ray 1957, per L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais 1961, per L’infanzia di Ivan di Andrej Tarkovski 1962. Il loro ruggito si fa ancora sentire in tutta la sua potenza. Stesse considerazioni per Berlino e Cannes, il commento dei cui verdetti richiederebbe però uno spazio qui ormai esaurito. Non c’è la possibilità perciò di stendere un bilancio, ma, in ossequio alla denominazione di questa rubrica, chiudiamo con qualche Palma d’oro indicativa di manifesta magnanimità (o incomprensione): quella al pomposo Mission 1986 di Roland Joffé e l’altra al levigato e accademico Pelle alla conquista del mondo di Bille August 1988: questi film sono davvero da ricordare altrimenti che per la munificenza delle giurie?


Concettimmagini BLOW-UP

Francesca R. Recchia Luciani

Sale cinematografiche sempre più vuote. Anche il cinema subisce vistosamente la crisi: ci sono sempre meno soldi per fare i film, e sempre meno soldi per andarli a vedere, e da ciò consegue ineluttabile che vi siano ancor meno soldi per fare i film. Un circolo vizioso in cui a meno investimenti corrispondono ancor meno risorse dedicate a quel magico ibrido tra arte e industria che è il cinema, macchina di seduzione per eccellenza che, come un vecchio bon viveur ormai in disarmo, vive più dei fasti del passato che delle avventure del presente. Eppure le platee si vanno svuotando non solo per la recessione economica, e il declino del consumo culturale non è solo una voce in passivo in più nel generale bilancio in disavanzo del momento. Lo spettatore è disperso, messo in fuga da un cinema che comprende e apprezza sempre meno, a opere filmiche la cui inusitata durata si affianca indissolubilmente e drammaticamente alla loro spaesante vaghezza, alla loro disarmante inconsistenza, alla loro pochezza di senso. Il pubblico cinematografico, come quello teatrale o museale, viene sfidato dalla produzione artistica e spettacolare contemporanea, a garantire una fedeltà alla propria missione di fruitore culturale che è tuttavia sempre più arduo assicurare. E non tanto perché il suo amore si orienti verso altro – benché talvolta accada che qualcuno si invaghisca, anche perdutamente, del web o dei new media – ma soprattutto in quanto lo si ritrova, smarrito e disorientato, dinanzi a un’offerta variegata ma futile, ricca nelle forme ma povera nei contenuti, sempre più incapace di inchiodarlo sulla poltroncina della buia sala cinematografica con la sua antica fascinazione. Quel che è irrimediabilmente mutata è la relazione con il film o l’opera d’arte, rapporto definitivamente radicalizzatosi in due estremi, il puro entertainment o la cinefila ossessione amorosa sempre in procinto di sfociare in una precoce e infantile sindrome di Stendhal. E in queste vesti torna a riproporsi, come un assillante tormentone, l’antico dilemma tra “cinema-spettacolo” e “cinema d’autore”, tra distrazione e narrazione. Il più autentico e globalizzante spettacolo di massa è stato anche formidabile strumento di alfabetizzazione culturale ed estetica di molte generazioni, capace di illustrare realtà lontanissime e di creare universi fantastici potenti che hanno colonizzato il nostro immaginario. Quei mondi – le età del passato, il western, la fantascienza, il cinema di guerra, prima l’America filmata, poi l’ Oriente estremo e superbo nella sua alterità, persino l’horror, e tutti i luoghi immaginifici che il cinema ha materializzato per noi – sono divenuti così reali che vi ci siamo trasferiti spesso e volentieri, abitandoli con immenso piacere e obbedendo soltanto alla logica e all’estetica del godimento.

E se in una lontana stagione, tra i Cinquanta e gli Ottanta nel nostro paese prese a dilagare quella che Ennio Flaiano chiamò la “prepotente abitudine” degli italiani alla frequentazione delle sale cinematografiche, si è spezzato ormai da oltre un trentennio tale legame, soppiantato dal pigro e pantofolaio home video che non solo ha indotto molti cinema alla chiusura, ma ha confinato il pubblico in una casalinga solitudine, riducendo il derelitto spettatore come il naufrago approdato su un’isola deserta, solitario abitatore di un mondo sempre più privato e sempre meno fantastico.


Videoalterazioni Tra cinema e arti visive Una generazione di performers pugliesi No, il pubblico non si è trasferito su altri pianeti.

Mariapaola Spinelli

La risposta non può che essere negativa in una rubrica che si occupa di arte visiva contemporanea, pena l’esistenza stessa di quest’ultima e di tutti i musei, le fondazioni e le biennali che ruotano intorno ad essa. L’arte visiva per esistere ha bisogno dello spettatore “incarnato” a differenza di quello cinematografico ormai sempre più “disincarnato” che, aldilà dei festival, frequenta sempre meno la sala. E tra le diverse arti visive la performance è quella che più di tutte sottolinea questo rapporto quasi simbiotico tra la carne del pubblico e quella dell’artista/opera. Marina Abramovic “la nonna della performance” come ama lei stessa definirsi, nel suo ultimo lavoro The artist is present ha usato il rapporto tra pubblico e artista nella maniera più diretta e più essenziale che possa esistere ovvero invitandolo a sedersi di fronte lei, guardandolo direttamente negli occhi. impossibile qualsiasi trasferimento o sparizione… Tantissimi i nomi che dai precursori futuristi e dadaisti fino a Joseph Beuys, Vito Acconci, Chris Burden, Yoko Ono, Gina Pane, Carolee Scheemann, John Cage, Vanessa Beecroft, Francis Alys, Shigeko Kubota hanno reso in passato e nel contemporaneo la performance un’arte attiva. Non è di questi artisti che si è scelto di parlare ma di una generazione di giovani perfomers tutta pugliese formata da: Nico Angiuli, Chiara Fumai, Fabio Mazzola, Luigi Presicce, Sergio Racanati e Valentina Vetturi. La maggior parte di loro è attiva sul territorio ma spesso lavora più fuori regione e all’estero. Chiara Fumai (Roma, 1978) ha partecipato alla mostra Documenta a Kassel e di recente ha vinto il Premio Furla (importante riconoscimento nazionale) con il lavoro Chiara Fumai legge Valerie Solanas, un progetto incentrato sulla lettura dello SCUM il manifesto della femminista e attivista politica americana, un lavoro molto duro e asciutto sulla condizione femminile ancora fortemente precaria. Con #2: Sull’autobus n.4 ho incontrato chi ha sognato di tagliarmi la testa a cura di Edoardo Trisciuzzi, Fabio Mazzola (Bari, 1980) è in mostra nella Project Room della Fondazione Museo Pino Pascali fino al 17 marzo per il progetto Il Museo e il territorio, l’idea e la forma a cura di Luna Pastore e di Isabella Battista. La ricerca artistica di Mazzola spazia dai video ai disegni, alle performance soprattutto svolte in centri commerciali, in strade e stazioni, un lavoro sui non-luoghi in cui la lettura sociologica è sostituita da ironia e cinismo. Nico Angiuli (Adelfia, 1981) dai video è approdato alla performance soprattutto con il lavoro La danza degli attrezzi ricerca ancora in fieri (l’artista è in residenza in Spagna) sui meccanismi delle fasi di produzione legate al lavoro contadino. Lo scopo dell’artista è di creare un video-archivio dei gesti che hanno segnato il lavoro dei campi, sostituiti dalla meccanizzazione della produzione. Sergio Racanati (Bisceglie, 1982) ha un approccio militante, molte sue perfomance Sullo sfondo Fabio Mazzola Sull’autobus n.4 ho incontrato chi ha sognato di tagliarmi la testa courtesy Museo Pino Pascali Polignano a Mare (BA) foto Nicola Boccardi

hanno uno sconfinamento nell’azione politica. Le sue ricerche sono incentrate sul capitalismo cognitivo e sui nuovi processi sociali, politici, economici in cui includere nuove soggettività che concorrono alla partecipazione e costruzione di modelli “nuovi e possibili” di vita. DEMOCRACY IS HYPOCRISY, il video della performance è in mostra fino al 13 aprile a Firenze alla Fondazione Biagiotti nella mostra La mala educación a cura di Pietro Gaglianò. Valentina Vetturi (Reggio Calabria, 1979) opera un’indagine sulla percezione della quotidianità attraverso azioni quasi invisibili. La sua ricerca indaga la relazione tra performance, scrittura e i suoi interventi forzano la percezione del quotidiano tramite elementi che ne scardinano il flusso abituale. Infine Luigi Presicce (Porto Cesareo, 1976) sviluppa il suo lavoro intorno a temi mistici e religiosi carichi di un forte simbolismo, ermetico ed esoterico. La tensione religiosa si fonde in animismo come l’artista dichiara: “Cerco la trascendenza guardando verso il basso, alla terra, a quella cultura popolare che ci vede simili a bestie”. Famosa è la performance fatta a Novoli La benedizione dei pavoni, in cui Presicce, nel giorno di Sant’Antonio Abate (protettore degli animali) in posa ieratica benedice i pavoni alla presenza dei bambini. Hic et nunc. La performance è un’arte fatta di resistenza e di presenza. Due condizioni ancora praticabili per lo spettatore?

Sergio Racanati DEMOCRACY IS HYPOCRISY ]Performance Space[ Londra 2012

Nico Angiuli La danza degli attrezzi - raccolta delle olive courtesy collezione Gino Battista foto J. Orcaray Vélez


Prospettiva Mediateca La reversibilità del pubblico hyperseriale

Claudia Attimonelli*

La tradizionale programmazione televisiva e cinematografica è entrata da tempo in un rapporto osmotico con le pratiche della digitalizzazione.

Il fenomeno che meglio racconta la diaspora del pubblico nell’iperspazio audiovisivo è quello dei tv serial, allorché, ad esempio, navigando nel sito dedicato al culto di True Blood, Breaking Bad, American Horror Story, Grey’s Anatomy e tanti altri, ci si imbatte non solamente in notizie relative ad anticipazioni di puntate successive o gossip intorno ad attori e autori, bensì in una pletora di contenuti multimediali connessi alle stagioni dei serial preferiti. Quel che risulta ancora più sorprendente è che molti di questi contenuti provengano direttamente da quello che un tempo chiamavamo solamente pubblico e che quest’ultimo, da tempo riunitosi in sciami di fan e community, o anche in unità di singoli spettatori da decenni mutatisi in spett/ autori, si cimenti nelle differenti pratiche crossmediali di editing e upload di opere che omaggiano, sovvertono, parodizzano, ricreano e veicolano infiniti nuovi sensi rispetto al prodotto originale di partenza. Ecco nato l’hyperserial e il pubblico si tuffa nei suoi ammalianti flussi.

La logica partecipatoria alla base dell’hyperserial fa parte del processo della creazione narrativa dei prodotti seriali, poiché la narrativa digitale nella cultura convergente, per dirla con Henry Jenkins (2007) è frutto dell’unione del sistema televisivo, della rete e delle pratiche connesse all’uso del computer. Internet funziona per i serial televisivi come un sistema alternativo di broadcasting, il primo passo verso l’hyperserialità, infatti, è stato quello di affiancare alla programmazione degli episodi dei serial televisivi materiali inerenti al serial stesso, come notizie e immagini dei personaggi e degli attori, blog gestiti dai personaggi o dal fandom, sms con commenti relativi alle puntate, fanfiction, fanart, fansubs, ecc. La tendenza attualmente, invece, è quella di allargare e far tracimare il set dove si girano le scene dei TV serial in favore di una partecipazione degli utenti/spettatori/autori sempre più spasmodica e vampiristica.

Tra un episodio e il successivo, attingendo dagli

user generated content, lo spettatore sperimenta un processo di vita continua e di narrazione ininterrotta dal plot della puntata, verso contenuti accessori che colmano buchi di informazione sui personaggi e introducono un mondo narrativo stratificato e complesso. Le vicende di personaggi minori a cui i fan sono spesso legati possono arricchirsi enormemente e le storie che li riguardano, essere viste in un continuum che non tiene conto del montaggio della singola puntata. Gli ‘spett/autori’ nell’esperienza dell’hyperserial vivono la sensazione di scoprire da sé frammenti importanti delle vicende e di ricostruirli offrendoli agli altri fan. Il sistema home theater, il 3D e l’uso di un’unica piattaforma digitale, infine, offrono la possibilità di una visione immersiva che integra le azioni di guardare, toccare e interagire nello stesso tempo e adoperando lo stesso medium. * Responsabile attività culturali, artistiche e transmediali della Mediateca.

Le attività della Mediateca a partire da marzo: I lunedì del corso di Critica Cinematografica, i martedì e giovedì del laboratorio di montaggio Audiovisivo I-Make, la rassegna sul cinema giapponese di Nagisa Oshima di recente scomparso, la rassegna dedicata a Krzysztof Kieślowski, l’expo dei manifesti di film di fantascienza collegata al ciclo di film ispirati a Philp K. Dick e la miniserie di film e documentari su cinema e terrorismo a partire da The Company You Keep di Robert Redford (2012) sul movimento dei Weather Underground. Alcune anticipazioni per Aprile: l’incontro con Luca De Gennaro (Mtv) per presentare la sua preziosa donazione della collezione di Rolling Stone e altre riviste, la retrospettiva dedicata a Cosimo Terlizzi (L’uomo doppio 2012), il workshop in collaborazione con l’Univeristà di Bari sulla realtà aumentata: Bari Smart City 2013. Info per orari e iniziative su www.mediateca.it /Pagina Facebook: Mediateca Regionale Pugliese Twitter: MediatecaPuglia. La Mediateca Regionale Pugliese è un progetto della Regione Puglia-Assessorato al Mediterraneo, Cultura e Turismo e dell’Apulia Film Commission a valere su risorse P.O. FESR Puglia 2007-2013, Asse IV, Azione 4.3.1.


Prospettiva Centro Studi

Francesco Asselta*

Il tramonto della soggettività Negli anni stessi in cui Fellini si chiedeva su quali pianeti si fossero trasferiti gli spettatori, era in atto forse la più dolorosa delle crisi di struttura nella storia della sala cinematografica. Era la prima volta che le sale si trasformavano in supermarket, garage, o venivano abbattute ed uscivano di scena parole come “Rex”, “Splendor” o “Nuovo Impero”. Purtroppo quello che avveniva in quel tempo era l’inizio di un percorso che ci avrebbe per sempre allontanato dal pianeta “cinematografo”, conducendoci di forza su altre galassie estetiche. Oggi, studiando quella che fu una crisi di struttura, non possiamo non accorgerci del danno appena superficiale subito, se paragonato a quello inferto alla “visione paradigmatica” dagli “individual media”. Le sale allora chiudevano per mancanza di pubblico, oggi chiudono anche perché il pubblico molte volte ha una preparazione e un gusto superiore ai proprietari (o ai programmatori) della sala. Insomma, la crisi della sala incrocia la rivoluzione mediale di quest’ultimo decennio. E quando leggo sui giornali di settore le discussioni sulla crisi del cinema mi viene spesso da sorridere: a chi dovremmo affidarci per l’uscita da questa fase recessiva, ai produttori, ai distributori, agli autori, agli esercenti? Forse non è ancora chiara la portata della crisi. I film, per quasi un secolo, sono stati tra le principali fonti di assimilazione di “racconti”

e di “storie”. Ora, in base a cosa un uomo o una donna sono in grado di possedere un’idea di mondo se non grazie alle “storie”? In base a cosa siamo disposti a cambiare idea sul mondo se non attraverso l’alterità che rappresenta una storia, con la sua verità irriducibile che ci costringe attraverso l’empatia con uno dei personaggi a riconsiderare posizioni incrostate? In altre parole, quante volte abbiamo cambiato opinione o maturato un’opinione politica grazie a una storia? Partendo da questo presupposto (l’essenziale rapporto tra il soggetto e le “storie”) possiamo arrivare alla domanda più importante: esiste una regola o un paradigma nella visione? Un film lo si può guardare come si vuole? E quanto incide la corretta visione (ammesso che esista) sulla coscienza di un soggetto? Si può guardare un film sul proprio schermo, in casa, in funzione “attiva” (cioè con reperibilità permanente)? E’ giusto interrompere la visione per riprenderla poi quando lo si desidera? La sala con la sua costrizione al silenzio e all’attenzione ha imposto per decenni il suo stile di visione, formando generazioni di spettatori. Cosa, chi e come gli “individual media” stanno formando?

Non mi riferisco alle generazioni che hanno vissuto l’epoca analogica e stanno vivendo quella digitale. Provate a pensare ai nativi digitali indagati dagli studi sull’assenza di empatia nei soggetti che non usano i dispositivi classici della fruizione estetica (sala cinematografica, libro, ecc...). Non credo sia opportuna una guerra di religione, ma una riflessione su cosa stia diventando il rapporto tra opera d’arte e soggetto va fatta seriamente. La crisi del “paradigma della visione” è una faccenda complicata quanto poteva apparire la plancia del Titanic a un passeggero ospite del capitano. Non è importante discutere di crisi della sala e dell’assenza del pubblico: sarebbe una discussione di retroguardia e di breve respiro, sia pur legittima per gli interessi in gioco. E’ molto più importante occuparsi di ciò che sta diventando il soggetto per capire finalmente su quale pianeta si siano trasferiti gli spettatori. * Consigliere AFC delegato al Centro Studi


CINEPORTI IN RASSEGNA BARI MORALE – FORMALE. Il rigoroso cinema di Elio Petri A cura di Angela Bianca Saponari

A cosa serve una retrospettiva? A cosa servono gli omaggi ai registi? Nel 2005, alle Giornate degli Autori di Venezia, è stato presentato il documentario

Elio Petri. Appunti su un autore, un importante atto di riverenza nei confronti di un cineasta di cui si sente fortemente la mancanza. Tra i più geniali registi del nostro cinema, purtroppo dimenticato da gran parte della critica italiana, Petri è stato per anni confinato nei ristretti limiti del genere “politico”. Dotato di pensiero innovativo e sguardo profetico, egli è stato invece un artista completo, capace di avviare una ricerca espressiva che non ha avuto eguali. Il suo cinema “d’avanguardia” ha saputo raccontare il malcostume della politica e dei suoi rappresentanti, le incrostazioni ideologiche e le nevrosi sociali immutate nel tempo, attraverso un linguaggio nuovo e originale e con approcci stilistici eccessivi e stranianti a cui gli spettatori di allora non erano abituati. Le sue scelte espressive restano indigeste anche allo spettatore di oggi, per la carica eversiva e i toni grotteschi che non sembrano aver trovato eredi. E’ forse per questo motivo che i film di Petri sono ancora in-visibili.

Cosa è accaduto dopo il 2005? Cos’è accaduto dopo le commemorazioni per il trentennale della scomparsa del regista? A cosa servono gli omaggi agli autori se i loro film non tornano in sala o non rimbalzano nell’immaginario contemporaneo? Ci sono immagini così potenti da dover essere dimenticate. Ci sono suoni così agghiaccianti da dover restare inascoltati. Ci sono maschere così inquietanti da dover essere oscurate. Ci sono trame così vuote da dover essere taciute. C’è tutto questo nel cinema di Petri, emarginato nel ghetto di una classificazione da manuale, nel confine cronologico di una poetica datata perché legata alla storia politica del nostro Paese.

Eppure riguardando i suoi film può venire il sospetto che l’operazione classificatoria sia stata determinata

dall’esigenza di arginare una questione difficilmente governabile. Vedere di seguito L’assassino (1961) e poi Buone notizie (1979), il primo e l’ultimo lungometraggio di Petri fanno venire il sospetto che non ci si trovi di fronte allo stesso regista. Elio Petri, infatti, contraddice la Politique des auteurs, i suoi film rompono lo schema della visione autoreferenziale e sembrano realizzati da artisti diversi. Una volta emerge il giornalista, un’altra volta il saggista, un’altra ancora il cinefilo… in un gioco perverso e destabilizzante per lo spettatore e per lo storico del cinema che preferiva risolvere nell’etichetta del “cinema politico” la faccenda. Oggi riteniamo che proprio in questa complessità vada ricercata l’autenticità del regista, e desideriamo che i trent’anni che ci separano dalla sua scomparsa si annullino nella potente visionarietà dei suoi fotogrammi e nella preziosa lezione di

rigore morale e formale di cui non si può più fare a meno. Nella sala del Cineporto di Bari abbiamo provato a sciogliere il nodo che costringe una poetica complessa nelle trame di inquadramenti obsoleti, non esaurienti, non appaganti. Abbiamo scelto di proiettare film che raccontano il rapporto di Petri con le avanguardie cinematografiche europee e con quelle figurative americane, la sua passione per la lettura dei classici e per il collezionismo di opere d’arte, il suo pessimismo inguaribile pregno di propensioni metafisiche, l’interesse per una dimensione artigianale dell’arte e il rifiuto del racconto orientato verso una nuova e più moderna spettacolarità, ancora oggi inquietante, ancora per noi disturbante.

Gli appuntamenti: 28 febbraio h 20:30. La Nouvelle Vague secondo Petri I giorni contati (1962) 7 marzo h 21:30. Cinema Pop La decima vittima (1965) 14 marzo h 20:30. Le maschere del Potere Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) 28 marzo h 20:30. La fine del racconto Todo modo (1976)

Rassegna Energia diversamente rinnovabile Tra cinema e disabilità a cura dell’Associazione Cinethic 19 febbraio h 20:30 Carmela Vincenti introduce Un sapore di ruggine e ossa di Jacques Audiard 26 febbraio h 20:30 Renato Curci – Circo forum introduce Oasis di Lee Chang – Dong 5 marzo h 20:30 Michele Stella introduce Sulle mie labbra di Jacques Audiard 12 marzo h 20:30 Licia Lanera - Fibre parallele introduce L’estate di Giacomo di Alessandro Comodin


Perversioni private

Omar Di Monopoli

L’intero armamentario è sistemato sul letto: un paio di sneakers nuove di zecca, una tuta strisciata sui fianchi, una giacca a vento col cappuccio aerodinamico in tinta, l’Ipod carico di playlist confezionate per la bisogna. E ancora i guanti di lana tagliati sulle dita. Persino una coppia di polsini spugnosi modello Bjorn Borg. Archiviato il funesto 2012 tra mille scongiuri, apro al futuro attrezzando la mia prima, decisiva sessione di jogging. Colpa del mio medico. Stufo marcio di vedermi trascinare periodicamente nel suo studio col volto paonazzo e gli occhi pallati: «inutile sottoporsi ancora a quintalate d’esami. Lei è sano come un pesce», mi fa. «Il suo problema è lo stress: si trovi uno sfiatatoio per il surplus di adrenalina o saremo costretti a ricorrere agli psicofarmaci». Dopo anni di volontaria dedizione all’atrofia, al giro di boa dei quaranta inverni mi ritrovo così costretto a diventare uno sportivo. Sei chilometri di corsa. Un giorno sì e uno no. Al crepuscolo, per godersi il tramonto calettante del Sud. Sgambando felice sull’unica corsia ciclabile del posto in cui vivo. Sperando di ritrovare se stessi. E di gabbare lo stress e l’industria farmaceutica. Mi accingo quindi al rito della vestizione con marziale raccoglimento, inspirando ritmico l’aria prima di liberarmi dell’accappatoio. Tensione e phatos sono alle stelle. Sono un Dio greco pronto a morire in battaglia. Sono il veterano John Rambo che si barda per il suo personale Ragnarök. Ho appena infilato i calzoni della tuta quando l’Inesplicabile si manifesta: i pixel di un televisorino perennemente acceso in un angolo della stanza mettono a fuoco come per incanto la figura morbida di una biondona alloggiata dietro la cassa d’un bar. È una giovanissima Mara Venier. E nei suoi occhi sembra rilucere tutta l’ingenua illusione d’immortalità con cui gli anni ’80 stordirono la mia generazione condannandola al nichilismo perpetuo. La rete è un’ignota emittente di provincia. Il film lo conosco a memoria, è Al bar dello sport, di Francesco Massaro. Lino Banfi - il miglior Banfi, quello ribaldo e ipercinetico, capace di “spezzare la noce del capocollo” in un tripudio di rutti e bestemmie in barese - v’impersona uno squattrinato emigrante pugliese in una Torino cupa e lunare, ospite sgradito del cognato sabaudo. Frequenta assiduamente il bar eponimo assieme a una serqua di buzzurri sudisti facendo il filo alla cassiera (appunto, la Venier) e sognando di diventare un giorno ricco come Agnelli (l’avvochèto). Mollo tutto per approssimarmi allo schermo, come in trance. Catturato dalla linearità estrema di un plot destinato a un pubblico di deficienti, ma scritto da Dio. Imbeccato da un muto chiamato «Parola» (Jerry Calà, qui sopportabile proprio perché non fiata) il Linuzzo Nazionale mette il «2» su Juventus/Catania e azzecca al Totocalcio un tredici miliardario (da sturbo il progressivo avverarsi dei goals: con Banfi inchiodato alla radio in canotta e mutandoni che ringrazia a ogni piè sospinto La Madonna benedetta della Ribalta di Cerignola). Braccato da amici e parenti che esigono lussuose regalie e da un boss mafioso che pretende percentuali sul premio, il nostro fugge assieme a Calà verso la gaudente Costa Azzurra.

Il sole là fuori agonizza intanto inesorabile, tingendo l’orizzonte d’un caldo rosso borgogna e poi spegnendolo di botto mentre io resto inchiodato alla tv a seguire le tappe del viaggio dei due soci: giungono a Sanremo, dove «Parola» perde tutto al casinò. Con l’ultima fiche - in un finale al cardiopalma - i due sghembi protagonisti si portano a casa tre miliardi di lire. Ogni mio proposito ginnico è ormai bellamente svilito mentre i titoli di coda partono su un Calà che ritrova la parola per magia. Una musichetta si diffonde leggiadra nella sala. Chissà, penso io guardandomi i piedi nudi, potrei sempre provare con lo yoga! * Nel numero precedente il racconto di Perversioni Private era stato scritto da Emanuele Tonon, ci scusiamo con lo scrittore e con i lettori per l’assenza del nome.


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Hanno collaborato: Luigi Abiusi Gemma Adesso Francesco Asselta Claudia Attimonelli Vito Attolini Massimo Causo Carlo Gentile Davide Di Giorgio Francesca R. Recchia Luciani Francesco Maggiore Enrico Magrelli Omar Di Monopoli Francesco Monteleone Alberto Pezzotta Angela Bianca Saponari Tutte le opere letterarie presenti in questa rivista sono protette da licenza Creative Commons, in modalità BY- NC- SA. Questo significa che per riutilizzare i nostri contenuti occorre indicare la firma dell’opera, usarla senza scopo commerciale e distribuirla allo stesso modo. Alcune delle foto presenti sono protette da © Corbis images. www.apuliafilmcommission.it email@apuliafilmcommission.it www.dautore.apuliafilmcommission.it info@circuitodautore.it facebook.com/circuitodautore Stampa: Italgrafica sud Progetto grafico: Developing.it Art Director: Michele Patruno


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